Il faro
di Marco Celati - giovedì 01 ottobre 2015 ore 07:00
"La tua irrequietudine mi fa pensare/ agli uccelli di passo che urtano ai fari/ nelle sere tempestose", tempestosa la sera era davvero, la notte era scesa in fretta. Il vento sferzava le imposte e le mura della casa, su fino alla torre. Sotto, il mare urlava, le onde nere e increspate si abbattevano a due a due sulla scogliera, spumeggiando, rischiarate dalla luce del faro.
Era salito fino alla piattaforma, centottantatre scalini, il sibilo del vento lungo la scala a chiocciola metteva i brividi. Controllava che tutto funzionasse bene: la lanterna si era accesa regolarmente. C'era un allarme in caso di guasto, ma in questa notte illune e senza stelle, apprensivo com'era, voleva esserne sicuro. Il faro illuminava, con la sua luce intermittente, fino a trentasei miglia al largo dell'isola, oltre le secche ed era un riferimento per le rotte, un avviso ai naviganti nella bufera. Venti metri sul livello del mare, cinquantaquattro metri di torre, era uno dei più alti del mediterraneo.
Viveva nella piccola casa, bianca di calce, alla base del faro. Era già un anno e mezzo, aveva fatto il corso di farista e si era presentato per il posto di guardiano della piccola isola disabitata. Si era fatto raccomandare, secondo l'uso italico, ma non c'erano altri concorrenti e il posto era stato suo. L'isola era piccola, un giorno di cammino bastava per visitarla tutta e non era proprio disabitata. Oltre a lui c'erano il fido e vecchio Ronni, un grosso cane meticcio che è un modo più nobile per dire bastardo e i bastardi sono i cani migliori. E c'era una gatta nera, a pelo lungo, di nome Sissi del Lago perché, qualche anno prima, l'aveva trovata, piccola, in riva a un laghetto, nel continente, dove d'estate andava a fare il bagno. Fu amore, reciproco, a prima vista: un colpo di fulmine. Cane e gatta andavano d'accordo, li aveva portati sull'isola per fargli compagnia.
"È una tempesta anche la tua dolcezza,/ turbina e non appare,/ e i suoi riposi sono anche più rari". Aveva il volto di un sorriso arrendevole e un décolleté da far dimenticare la tristezza di qualsiasi tramonto, ma le cose vanno come vanno. "È un mondo difficile e vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto...E nostra piccola vita e nostro grande cuore...Me cago en el amor". Questa canzone di un simpatico cantautore spagnolo era stata la degna conclusione. Eppure ogni mattina con un essemmesse le inviava un buongiorno non contraccambiato. Poi doveva correre in bagno. Due cose comandano un uomo maturo: il cuore e la prostata. Il cervello non è detto.
Agli amici, parenti e conoscenti che, saputa la sua intenzione di prendere i voti di farista guardiano, gli davano alterni suggerimenti o tentavano di dissuaderlo, diceva "Non datemi consigli: so sbagliare da me".
Il fatto è che, dopo tanti anni di impegno sociale e civile, soffriva di agorafobia. Aveva incarnato lo spirito dell'essere partecipe e ora aveva voglia di non esserci, non aveva più voglia di nessuno. Respirava la crisi che aveva coinvolto economie, imprese e società e vedeva fallimenti ovunque e un progressivo adattamento, quando non un compiacimento, del modo di essere e di pensare: la crisi era diventata cultura, etica comportamentale. Oltretutto sentiva avvicinarsi lo spettro di una misera e inoperosa pensione e non sapeva come reagire e se valesse ancora la pena. Così, crisi per crisi, aveva scelto l'isola del faro: un periodo di tre anni, rinnovabile.
Il vento turbinava sul promontorio e Capo Libeccio sembrava l'avamposto degli uomini perduti, anzi di quell'uomo perduto. Lo spettacolo della natura era maestoso e primordiale: questa notte di tempesta e i giorni di bonaccia con il mare e il cielo di un azzurro e di un celeste semplicemente divini.
La vita si svolgeva metodica: sveglia alle sette, colazione, ispezione nell'isola con cane a seguito, la gatta ronfava, alle quattordici il pranzo, poi leggere, scrivere e comunicare con il computer per il rapporto giornaliero al Comando e per sé: in fondo oggi non si era più veramente soli. La sera, controllo del faro, poi cena frugale e leggera. Un po' di televisione, quando prendeva, e a letto presto, leggendo o scrivendo di nuovo, le bestie, accudite, nel loro giaciglio. Si addormentava quasi subito. Le prime notti aveva avuto paura del silenzio e del vuoto, poi si era abituato. Aveva imparato a sentire la risacca, il vento e il grido dei gabbiani che lo accompagnavano nel sonno. A volte sognava.
Aveva in dotazione una piccola barca a motore, da tirare in secca; quando il mare e il tempo lo consentivano girava attorno all'isola, faceva il bagno a Cala Rossa o alla spiaggia bianca e pescava. La casa era composta da tre stanze, la cucina che fungeva da soggiorno con terrazza e veranda affacciata sul mare, la camera e il bagno. All'esterno c'era anche un ripostiglio. Tutto molto rustico e sobrio. La copertura della casa era piana e consentiva di raccogliere l'acqua piovana che s'incanalava in una piccola cisterna, ma pioveva poco, le nuvole passavano in fretta, non si fermavano a lungo sull'isola che non aveva rilievi montuosi: il tempo di una bufera. La corrente elettrica era garantita da panelli fotovoltaici e da una piccola pala eolica. C'era, per ogni evenienza, un gruppo di continuità a gasolio. Sul retro della casa e della torre aveva realizzato un piccolo orto che zappettava e coltivava, però di malavoglia, con poca perizia. Un po' di verdure e qualche pomodoro comunque ce li ricavava. Pensare che era discendente di contadini e di operai.
I viveri arrivavano ogni due mesi con l'elicottero della Marina che atterrava su un pianoro poco distante dal faro. Il pilota era una donna, una mora del sud, capelli corti. Si fermava un po' a chiacchierare, si accendeva una sigaretta "no grazie, non fumo", il tempo di un bicchiere "non bevo in servizio, grazie" e di un caffè, quello almeno condiviso, seduti sulla veranda davanti al mare. Poi i saluti, il frastuono del motore, il vento delle eliche, rimaneva con la mano alta finché l'elicottero non diventava un punto nel cielo. C'era simpatia, forse, chissà.
"Con un segno/ della mano additavi all'altra sponda/ invisibile, la tua patria vera". Il continente non sempre si vedeva, appariva solo sfumato all'orizzonte in giornate particolari. Allora sembrava meno lontano, sembrava che anche quell'isola del mare e dell'aria fosse "migrabonda" come le altre più celebri: "la Corsica dorsuta o la Capraia". Andasse alla deriva.
Aveva spesso nostalgia di una terra ferma e di una casa che fosse una famiglia, di una vita che avrebbe potuto essere e non era stata, una vita ferma. Ma purtroppo o per fortuna "gli esseri animati si muovono da se stessi". Aveva nostalgia della passione che l'aveva sorretto e dell'amore che l'aveva perduto. Resisteva, anche se c'era chi scriveva che "resistere non serve a niente", conviveva con se', pensava a voce alta, parlava da solo. Aveva nostalgia dei figli che sapeva grandi ormai, autonomi, dediti alle loro vite. La figlia della compagna di un tempo andava già all'Università. Chattava ogni tanto con loro, quando la malinconia colpiva di più.
Leggeva, aveva un Kindle e scaricava i libri che voleva, ma un po' di libri se li era portati: aveva nostalgia anche della carta. Scriveva racconti brevi, di più non gli riusciva: "non c'era il tempo", diceva, sorridendo. Forse anche lui era "tra i fortunati che han visto l'aurora/ sulle isole più belle della terra", ma "il sole si levava" e "il tempo era vecchio per loro" e forse anche per lui.
La secca che il faro rischiarava era stata spesso causa di naufragi e dell'annegamento di marinai che il mare si prendeva: le loro anime restavano senza pace, come i corpi insepolti. Nella casa sul faro qualche sera una finestra sbatteva senza motivo o una porta. A volte si sentiva un fruscio, come un picchiettare di pioggia sulle pareti del faro, ma non era né vento, né pioggia. Allora apparecchiava per un posto in più e i rumori cessavano: qualche anima aveva bisogno di compagnia. Ma forse erano paranoie dovute alla solitudine forzata.
A volte approdava qualche pescatore d'altura, d'estate qualche natante di villeggianti spinti fin là, in mare aperto. Saluti e conversazioni di cortesia: un misto di piacere dell'incontro e di desiderio del commiato.
"Forse/ ti salva un amuleto che tu tieni/ vicino alla matita delle labbra,/ al piumino, alla lima: un topo bianco,/ d'avorio; e così esisti!". Raccoglieva sassi colorati, conchiglie preziose e rare, legni contorti che il mare levigava e restituiva in forme strane e ne faceva ornamenti per la casa. A volte disegnava e dipingeva. A volte ascoltava la musica, diversa se intendeva assecondare la tristezza o voleva procurarsi allegria. Più spesso preferiva il silenzio.
Una notte si sognò Pavese che gli chiese in che confino fosse capitato, sbrattava la pipa e ripeteva tristemente: "La mia parte pubblica l'ho fatta...Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo". E nel sogno gli apparve anche Montale, il Maestro, che invece non gli proferì parola: muto e severo, lo commiserava. Poi se ne andarono tutti e due, insieme, e sembrava ridessero piano fra loro. Forse anche i più grandi poeti, suicidi o no, laureati o meno, hanno bisogno di distrazione.
La mattina si svegliò più tardi, il sole era sorto da un po' su quell'isola del faro, senza luogo, senza tempo, senza nessuno. Il mare, bellissimo, lo chiamava.
Marco Celati
23 settembre 2015
______________________
Questa storiella attinge ai resoconti della vita dei guardiani dei fari, in particolare di Bonaventura Venza, il farista di Marettimo, raccontato da Lilla Mariotti, le citazioni sono da "Dora Markus" e "Casa sul Mare" di Eugenio Montale e da "Il mestiere di vivere", "Dialoghi con Leucò" e "I mari del sud" (di nuovo!) di Cesare Pavese. La battuta sul décolleté è richiamata a memoria da un servizio televisivo di Vincenzo Mollica. Che "gli esseri animati si muovono da se stessi", oltre ad essere vero, l'ha detto Aristotele nella "Metafisica", ripreso da San Tommaso d'Aquino: "gli animati di anima sensitiva per istinto naturale, gli animati di anima intellettiva per propria azione: la volontà, infatti, può volere o non volere"; è comparso anche in "Tempi glaciali" di Fred Vargas. La canzone "Me cago en el amor" è di Tonino Carotone e l'aforisma sui consigli di Dino Segre, il geniale e purtroppo fascistone e delatore Pitigrilli. "Resistere non serve a niente" l'ha scritto Walter Siti. Mettere insieme "arbitraria mente" queste cose diversissime è una mia pretestuosa e imperdonabile sciocchezza.
_______________________
Marco Celati