Villa Paradiso
di Marco Celati - venerdì 10 aprile 2015 ore 13:27
Per scrivere questo racconto breve ci sono voluti ben due secoli. È vero che il primo di questi secoli è stato detto breve anch'esso e che il secondo è da poco iniziato, ma insomma, sempre un bel record! La "storia" si è composta da sola, ma al rovescio: nel 1998 avevo scritto "appunti per un buon finale" che sono rimasti a lungo in attesa di un principio, un inizio. E l'inizio è arrivato solo ora, "risorto" a Pasqua del 2015, sed ingravescente aetate: un inizio, forse un indizio, un presagio. Del resto forse quel finale attendeva una storia che era già nei pensieri. Comunque meglio tardi che mai.
VILLA PARADISO
Alla zia Arianna
La pensione era poca, aveva lavorato più di quello che aveva o gli avevano versato e aveva dato, diceva lui, più di quello che aveva ricevuto. Così, finché era stato possibile, si era impiegato, rimandando il suo ingresso fra gli affiliati all'istituto nazionale per la previdenza sociale. Poi il fisico non aveva più risposto, sopratutto la testa era andata e si era arreso alla minima di pensione. Con un bagliore di raziocinio aveva disposto di non essere di peso ai figli e nemmeno agli affetti che gli erano rimasti e aveva fatto tutte "le carte" per ritirarsi a "Villa Paradiso": si versa il 75% della pensione che va al Comune e si acquisisce il diritto di vitto e alloggio in una residenza sociale assistita: una cameretta, un posto letto, visite mediche e, purtroppo, anche animazione gli venivano accordati. Poteva entrare ed uscire e il primo anno ne aveva anche approfittato: andava al Bar la Posta, il barrino di quando era giovane accanto al Comune, con il Mago, la Pera e il Vit, poi sempre meno e poi più niente; rimaneva solo a bordo, come finiscono per fare quelli che partecipano alle crociere. Villa Paradiso era stata costruita vicino al cimitero comunale e così l'anima faceva presto a sbarcare dal piroscafo da crociera al traghetto di Caron dimonio. Praticamente uscio e bottega...
Ma quel luogo gli piaceva, diceva sono a casa e, se attraverso la strada, sono al mare. E c'era un motivo: aveva sempre lavorato in vita sua e provveduto a se stesso e ora che era servito e riverito in questa Villa gli pareva di essere in villeggiatura, come quando d'estate la fabbrica chiudeva e in famiglia per un paio di settimane si permettevano il lusso di quelle case cabina sulla spiaggia in Versilia o quelle rimesse affittate davanti agli scogli di Rosignano. La memoria non lo soccorreva o forse sì, confondendo ormai realtà e ricordi. Insomma, l'aveva presa bene, non gli pesava quel luogo, quel reclusorio, anzi "reusorio", come si dice dalle nostre parti: una volta alla settimana, poi una volta al mese, venivano a trovarlo delle persone che dicevano di essere suoi parenti, figli addirittura, e gli faceva piacere. Gli portavano i loro figli, suoi nipoti dicevano. Bene: aveva sempre pensato che una generazione in crisi di futuro e che rinuncia al futuro, anche al semplice proletario riprodursi, è perduta davvero.
La società, qualcuno, si prende cura di te. E c'erano quelle procaci infermiere...Gli piacevano quelle più mature, ben tenute, con i capelli tinti di rosso menopausa: le sentiva più affini. Da giovane aveva amato e ora l'impulso gli rimaneva, anche se non si ricordava bene per cosa. Era istintivo, ma ormai una passione sopita, non dannosa a se' o agli altri com'era stato in fondo l'amore.
Per un periodo, a causa di lavori di ristrutturazione della Villa, li avevano trasferiti ai Palazzi di Cecina: lui si affacciava alla finestra, davanti a quel mare grigio e diceva: com'è bella la mi' Pontedera! Poi li riportarono a Villa Paradiso e tutte le mattina ripeteva quella stessa frase: la finestra dava sul cimitero comunale! Tutti i pontederesi sono autorizzati a compiere gesti apotropaici.
La Villa era al completo: c'era chi stava bene, chi era allettato: veniva fatalmente attratto dal letto e poi non si vedeva più.
Ultimamente a lungo rimaneva davanti alla finestra, accanto a quelle persone dimenticate, cariche di destino, prive di futuro. Poi mentre era così, affranto, veniva colto da un moto di irragionevole contentezza.
Negli ultimi anni la felicità gli sopraggiungeva così, senza saperlo, e, senza saperlo, subito se ne andava. Perché la felicità non dura e perché la vita è per caso. Non ha uno scopo necessariamente, semmai può dirsi un caso che ci necessita. La vita è, scorre e segna, con l'aumento del disordine e della complessità, il passaggio del nostro tempo verso la fine.
Ce ne accorgiamo quando siamo vecchi, da giovani no, dai giovani viaggiamo alla stessa velocità del tempo e per un effetto relativo non notiamo il nostro decadimento.
Noi tentiamo di contrastare o regolare questo processo. Siamo noi a dare un senso all'esistenza e al suo divenire. Se perdiamo la volontà o la ragione di questo convincimento, la nostra vita perde senso e si abbandona al proprio moto fisico di dissoluzione, in una sorta di entropia esistenziale. La vita è il commovente tentativo degli uomini di arginare la propria tendenza a perdersi.
Pontedera 20.11.98 - 4.4.2015
Marco Celati