Racconto di Natale
di Marco Celati - martedì 25 dicembre 2018 ore 06:00
Sono uno scrittore. Scrivo, dunque sono. Forse sarebbe più corretto e prudente dire che sono uno scrivente, cioè uno che scrive, ma non stiamo a sottilizzare più di tanto. Uno che studia non è uno studente? O forse uno che studia è uno studioso, qualcosa di più che uno studente, condizione necessaria, ma non sufficiente, per essere studioso. Così anche uno scrivente non sarebbe necessariamente uno scrittore. Lasciamo perdere, per carità, queste cose annoiano. Un operaio in genere è uno che presta opera e un impiegato uno che ha un impiego, se non sono entrambi disoccupati. E allora!? Così un pensionato è chi si gode la pensione e non fa un cazzo niente. Dipende dalla pensione e comunque ciò non gli impedisce di scrivere. E si torna daccapo. Il mio è un ragionamento circolare, senza sbocco. E poi è un vecchio trucco, scrivere di scrivere. Molto abusato.
“I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, lo diceva Wittgenstein, un filosofo della logica. In effetti è così. Per me poi che mi ritrovo con poca fantasia e ancor meno memoria è particolarmente vero. Perché forse se ricordassi o inventassi di più, il mio linguaggio potrebbe travalicare in qualche modo i limiti del mio mondo. Chissà.
Sennonché sono uno scrittore e si avvicina il Natale con le altre feste comandate. Da chi non si sa, ma c’è sempre qualcuno che comanda le cose, feste comprese. E quindi devo scrivere un racconto di Natale da pubblicare al più presto perché l’editore mi incalza. Posso sempre proporlo su Amazon per la versione Kindle e risparmiare carta, ma anche in questo caso prima delle feste è meglio, perché si vende di più -Bruno Vespa docet- e si possono scalare le classifiche e poi puntare a qualche concorso o menzione d’onore. Insomma devo scrivere un racconto di Natale. Tipo Dickens. Anche meno andrebbe bene lo stesso. Anche perché non sono mai stato avaro, per il semplice e buon motivo che non ho mai avuto una lira e il passaggio all’euro ha rafforzato la mia convinzione europeista, ma non la mia condizione economica. Quindi questa cosa dell’apparizione dello Spirito del Natale, passato, presente e futuro, che redime un animo avido e capitalista, come quello di Scrooge di Dickens, a favore di parenti poveri, dipendenti sfruttati, classi diseredate, la capisco. La approvo pure -il mondo è cambiato, ma non del tutto e per tutti- comunque non la posso condividere. Sono più povero dei miei parenti e senza dipendenti. E poi, appunto, è già stata scritta. Allora un racconto giallo? Magari della serie del Commissario Favati. Titolo: “Natale in casa Favati”. Sottotitolo: “con delitto”. Ammiccante ed evocativo. Nelle isole di Capo Verde, dove l’ex Commissario si è ritirato per “rivalutare” la propria insoddisfacente vita e la propria insufficiente pensione, avviene il solito omicidio, meglio se due. Il sangue letterario è bene che scorra, tanto è per finta, la realtà per fortuna è migliore. Sono morti due turisti, venuti a passare il Natale sulle isole più belle dell’Oceano, ospiti dell’affascinante Pilar, una matura signora, che ha trasformato la sua ex scuola di ballo in una “pousada”, una pensioncina. E il commissario risolve il giallo, tirando fuori dai guai l’amata Pilar. La trama ci sarebbe. Ci penserò su. Ma intanto la Vigilia si avvicina e il temibile, impegnativo pranzo di Natale, incombe. E pure l’editore.
Da piccoli si faceva il presepe, che da noi si chiamava la “Capannuccia”. Si andava a cercare la borraccina nei campi, si tirava fuori dalla cantina lo scatolone con la carta stellata per lo sfondo del cielo, la carta mimetica stropicciata verde e marrone, che ricopriva libri e giornali accartocciati, per le montagne, la stagnola per il fiume e il laghetto, qualche anno perfino la cascata e la stella cometa da mettere sopra la capanna insieme all’angelo. Poi un po’ di segatura per la strada ed ecco fatto. “Te piace ‘o presepio?” I personaggi, gli animali, uscivano fuori dalla paglia come tutti gli anni e come per incanto. Qualcuno un po’ ammaccato. Un poco di paglia serviva per la mangiatoia e per il giaciglio del Bambinello, nella grotta con Maria, Giuseppe, l’asino e il bue. E tutto intorno le greggi, i pastori e le donne con le ceste e la brocca dell’acqua. Lontani, sui monti, i tre Re Magi con un solo cammello. Due si erano persi: i cammelli, non i Re Magi che seguivano la cometa. A volte gli oggetti cadono a terra silenziosi o si rifugiano in un altrove, spariscono, non si trovano più, sfuggono alla nostra attenzione e si perdono. Così spesso accade anche a noi, nel corso della vita.
Con il tempo e il progresso ci furono anche delle lucine intermittenti nascoste tra la borraccina e la carta dei monti, con il filo attaccato alla presa della corrente sotto il tavolo, rivestito da una lunga stoffa che nascondeva le gambe, addossato alla parete di carta stellata della sala, con sopra il presepe. Poi, accanto, il babbo e la mamma facevano l’albero di Natale: i primi erano piccoli abeti veri, poi, dopo il Nobel per la plastica a Natta, finti e stecchiti. Però con le palle che regolarmente si rompevano -è il loro destino- e andavano ricomprate, gli addobbi argentati o dorati, le luci e il puntale, faceva sempre la sua bella figura. Porca, si sarebbe detto, se non fosse che era Natale.
Il Natale per la nonna era il “Ceppo”, il tronco di albero che secondo la tradizione, per scaldare Gesù Bambino, doveva bruciare nel camino fino a Capodanno, addirittura fino alla Befana. Anche se noi non avevamo il camino, eravamo “cittadini”, nel senso di città. E poi veniva il “Ciuchino” che portava i doni ai bambini, se erano stati buoni, ma anche no. Non ricordo da parte mia tanta bontà, né tanta ricchezza della mia famiglia, ma è sempre venuto. Andavamo a letto presto e, quando arrivò la televisione in bianco e nero, dopo Carosello: meno luce blu a ingannare il cervello e più melatonina a regolare il ciclo del sonno e della veglia. E avevamo anche più tempo per i sogni. Tutti elettrizzati e speranzosi che qualche regalo della lista che avevano chiesto si trovasse al mattino sotto l’albero, ci si svegliava prima del solito e il più bello era scartare i pacchi, scoprire i regali. Quell’aspettativa era la felicità.
Iván Illich avrebbe detto speranza, non aspettativa. L’aspettativa è un prodotto della società industriale. Come, secondo “l’elogio della bicicletta”, è giusto il transito umano e non il trasporto, indotto da un malinteso bisogno di crescita e spreco di energia. Per non dire della necessità della descolarizzazione, indispensabile per ritrovare il vero sapere, evitando la gerarchia totalizzante, specialistica e discriminante della conoscenza. Per non parlare della confutazione dell’eccessivo ricorso alla “medicina patogena”, critica che vede oggi tanti maldestri epigoni. D’altronde il popolo sovrano, si sa, sono uno, nessuno e centomila. “Solo se sei totalmente libero, puoi vivere”, dice severo, dalla copertina del libro comprato a Pisa alla libreria dell’Arcivescovado, Ivan Illich. Non Ivan Il’ic, quello della cui morte scrisse Lev Tolstoj. E che palle, però, e mica solo di Natale! Magari se il cancro al volto, se lo fosse curato con la scienza medica e non solo lenito con l’oppio, Ivan Illich, il prete cattolico più ferocemente critico verso questo mondo impossibile, sarebbe ancora con noi e con il nostro spirituale, umano e divino convivio. Non sapevo nemmeno che era un prete, non mi pareva. Anche i preti non sono più quelli di una volta. Per fortuna, in molti casi. Ci scavalcano quasi tutti a sinistra. Non che sia così difficile. E sempre ammesso che Dio esista, che sarebbe un dubbio ancora più radicale. Però non una bella cosa da dire per Natale. È una questione di fede: in fondo la fede è un desiderio.
Poi c’era il pranzo di Natale. Natale con i tuoi. Che allora si sapeva chi erano. E magari non si sopportavano più, ci stavano stretti, man mano che siamo cresciuti e cambiati per diventare noi stessi. O quelli che siamo. E ora rimpiangiamo quei pranzi con i nostri cari che erano solo i nostri e noi di loro. Poi il mondo non è stato più lo stesso e non poteva essere che così. Magari ne sarebbe occorso uno migliore, di mondi. E anche una migliore di vita. Oggi le feste comandate intristiscono molti di noi.
“Tutti, anche gli amici, mi chiedono una trama. E hanno ragione. Anch’io cerco romanzi, gialli e film con uno svolgimento fantastico. Lo so. Quello che non so, al di là della storia e della fantasia, è se la vita si svolge o si addipana. E propendo per la seconda.” L’ha scritto quell’irresistibile bischero di Libero Venturi, un amico che scrive. Non saprei dire se scrivente o scrittore. Non penso lo sappia neanche lui e credo se ne freghi. Ma è vero, condivido. E intanto sto qui e devo buttare giù il mio racconto di Natale e non sono ancora a nulla. Non ho scritto niente di niente. O forse sì.
Anche a nome di Libero, amico di penna e di tastiera, Buon Natale a tutti voi.
Pontedera, 25 Dicembre 2018
Marco Celati